Dhì a girè
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In un territorio piuttosto avaro, l’uomo fin dai secoli scorsi ha sfruttato il legno il quale, unito alla manualità, ha dato vita a manufatti che divenivano una risorsa economica a integrazione del bilancio familiare o, a volte, unica fonte di sostentamento. A Erto, per indicare questo tipo di commercio ambulante diciamo “dhi a girè” (lasciare il paese per andare a vendere). Protagoniste le donne, ma si mettevano in viaggio anche famiglie intere o gruppi di uomini. D’inverno, nelle case risuonavo i colpi d’accetta che davano forma agli oggetti. Era questa la stagione durante la quale gli uomini preparavano il carico di ciò che sarebbe stato venduto. Qualcuno, per disporre di maggiore materia prima, sgrezzava gli utensili nel bosco per poi rifinirli a casa. Naturalmente c’era una conoscenza profonda degli alberi, l’acero per esempio era quello più adatto per i cucchiai perché non s’impregnava di odori e quindi andava bene in cucina. Questi utensili realizzati dagli artigiani erano chiamati roba biànscia, bianca, per distinguerli dalla roba lucida, come gli attaccapanni, gli sgabelli o i battipanni, acquistata all’ingrosso e fatturata dai rivenditori. Per lavorare bastavano pochi attrezzi: l’accetta, il coltellino, le sgorbie e due sole macchine. Il tornio, la tornarétha,per realizzare ciò che prendeva forma tonda (pestasale, spinelli, fusi) e la panca con la morsa, la bànscia da dolè, per gli oggetti lunghi (cucchiai, mestoli e gottazze). In primavera giungeva l’ora di caricare il carretto usando la scala per far trovare posto ai tanti sacchi pieni di oggetti di legno. Ma c’erano anche i pochi indumenti necessari per i lunghi periodi di assenza da casa, qualche tegame, le coperte e poi la cassettiera, i cesti e la gerla.

A Brescia sono andata con mia madre col carretto, aveva con sé tutto quello che serviva. Per mangiare s’appostava sul ciglio di una strada e cucinava per lei e i bambini.

Le donne partivano con appresso i figli di qualsiasi età.

Noi piccoli sembravamo in un nido, dentro al carretto.

Sono nata in mezzo ai setacci – racconta un’altra portatrice perché il papà si occupava principalmente dei setacci. Pochi erano i giorni di scuola di quei bambini, le frequenze saltuarie, a volte neppure un giorno.

In novembre mi mandavano a scuola e non aspettavano la fine, in primavera ripartivano e l’anno successivo a novembre ero di nuovo in prima.

I bambini più grandicelli, mentre la mamma andava a vendere, venivano anche lasciati presso le famiglie dei contadini che l’avevano ospitata e in cambio dovevano fare qualche lavoretto: aiutare nei campi, raccogliere i frutti… Capitava che i figli nascessero nei fienili, infatti molte donne partivano incinte e partorivano dove capitava. La geografia delle nascite parla di luoghi di tutta l’Italia settentrionale.

Sono nata in una stalla come Gesù Cristo a Betlemme in una mangiatoia. L’é stata do tre giorni sulla paia e dopo mi ha messo dentro in t’a la gerla e con la roba davanti andava a girar.

Camminavano per chilometri e chilometri… Trentino, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte ma anche Liguria e Valle d’Aosta, con ogni condizione di tempo.

Che vita! Sempre avanti e in dhré, a destra e a sinistra.

Generalmente erano due i periodi delle partenze, la primavera, per poi tornare a far fieno d’estate, e l’autunno, quando si ripartiva e si stava fuori fino alle soglie dell’inverno. Altre volte invece, gli ambulanti rimanevano lontano mesi e anni, a seconda dei bisogni. Dove arrivavano chiedevano ospitalità, sempre negli stessi posti, case di campagna spaziose dove si poteva lasciare il carretto e dove c’era un fienile per dormire senza disturbare. Di solito, a mezzogiorno, si arrangiavano a mangiare qualcosa lungo la via, la sera invece avevano bisogno di un pasto caldo e trovavano una solidarietà unica. In qualche casa, dopo aver preparato il cibo, i proprietari dividevano il fuoco con gli ospiti. I venditori ambulanti erano attesi anno dopo anno, si sono strette amicizie che perdurano ancora oggi con nipoti e pronipoti.

Sei qui, allora vieni, riposati, siediti un po’. Poi compravano qualcosa e prima di pagarmi, mi offrivano da mangiare – e adesso mangi e dovevo mangiare perché mi davano i soldi dopo.

Camminavano e bussavano di porta in porta, con la gerla o la cesta colma di utensili da vendere o barattare. Quando il carico era finito ne arrivavano altri dal paese tramite il fermoposta. I più piccoli andavano a mòcoi cioè a chiedere la carità, portando ai genitori farina, pasta e altri generi alimentari.

Io quand’ero piccola ed ero con mia madre andavo a carità. Al mattino per la colazione, a mezzogiorno per il pranzo e la sera per la cena. Tre volte al giorno.

Gli ambulanti, oltre alla vendita degli utensili di legno, si specializzarono anche in un tipo di commercio fatto di piccoli oggetti che trovavano posto in una cassettiera: aghi, filo, pettini, fettuccia, lamette, saponette, shampoo reclamizzato sulla busta “Shampoo Cella che fa la chioma bella”, pizzi e merletti. Tutto questo acquistato all’ingrosso.

Filo, astico, cordela. Parona vola niente. La se compri qualche cosa… era così che Giòta proponeva i suoi prodotti.

A Bologna, una nostra ambulante era chiamata “la donnina dei pizzi” perché era molto raffinata nella scelta della merce e le future spose riponevano fiducia in lei quando dovevano prepararsi la dote. Le cassettiere erano realizzate a Erto con il legno di ciliegio o noce, mentre i cassettini erano di abete, per alleggerirne il peso.

Nel primo cassettino mettevo spille e collanine e sotto lamette. Insomma in ogni cassetto sistemavo la merce tenendo conto dell’altezza. In quello più profondo la scatola del filo, l’elastico.

Era un’astuzia quella di sistemare nel primo cassetto anellini e spille per attirare le donne che aprivano la porta di casa e poter poi mostrare tutta la merce. Con il passare del tempo si aggiunge altra merce da vendere comprata nei negozi all’ingrosso e Giota ne fa un elenco minuzioso:

…sopra la cassettiera sistemavo bretelle, calze, mutande, maglie, lacci per scarpe, reggiseni, reggicalze. Aprivi la tela solo da una parte in modo che si potesse vedere la merce, così evitavi di sporcarla ed in caso di pioggia era riparata, capisci

…tutto il carico pesava 30-40 chili, però ti dirò una cosa, quando hai fatto l’abitudine non senti più quel peso.

…Per riposare durante i miei spostamenti, allentavo con un bastone il peso della cassettiera.

Tra loro gli ambulanti comunicavano con un gergo particolare. I soldi erano chiamati in molti modi: le laste, i botóns, i susùri, la pila; il carico della merce la maròca; i carabinieri i thaf; il vino nani o scàbio… Le venditrici erano gentili, davano in omaggio alle clienti più affezionate medagliette o santini presi nei santuari, in particolare a Padova, poiché verso Sant’Antonio c’è sempre stata una devozione particolare. Era il loro ringraziamento e anche un gesto per auspicare la benedizione del Cielo in quelle famiglie. Al ritorno, il carretto si riempiva di nuovi prodotti e novità. Quando abbiamo chiesto agli ambulanti che cosa pensassero dei venditori girovaghi di oggi, i marochìns come li chiamano a Erto, è emerso che in quegli occhi e in quei gesti essi rivedevano la loro vita.

Oggi mi identifico con i marochìns. Io, quando arrivano, compro sempre qualcosa… magari un paio di calzetti, per dare la soddisfazione di vendere. Anch’io ero contenta se mi compravano un po’ di filo, o un paio di calze o solo una cartina di aghi. Ti senti sollevata. Capisci a me fanno pena.

Un commercio particolare era quello dei setacci, i tamèis. In tempi lontani si realizzavano anche i telai dei setacci, con il legno di faggio: ricavate le assicelle con la lunghezza e lo spessore desiderato, si rompevano le nervature del legno affinché assumessero la forma e mantenessero la cerchiatura, utilizzando una macchina rudimentale dotata di rullo che girava azionando a mano una manovella. Negli ultimi tempi invece i telai venivano acquistati.

Andavo con la cesta di casa in casa e con una cintura tenevo insieme i setacci. Ero così carica che stentavo a passare per i portoni. I primi giorni erano i più duri, risentivo di quel peso sulle spalle, poi passava.

Nella mostra “Partire, partirò, partir bisogna” sfilano davanti ai nostri occhi gli oggetti rimasti invenduti dopo l’ultimo viaggio e gelosamente conservati nelle famiglie, le immagini degli ambulanti con i loro carichi, il carretto e la bicicletta, il mezzo di trasporto dell’uomo. E si può risentire ancora una volta la voce di una venditrice ambulante. Racconti di sacrifici, di povertà, di partenze, vendite e ritorni ma anche di grande dignità.